Capitolo 7. Oppio.







                  OPPIO
 

 

La figa di Ixo aveva interrotto la strada, era spalancata a caverna e le labbra violacee pulsavano di vita, il sangue continuava ad uscire zampillando e si era incanalato nel solco lasciato dai nostri passi diretto all’esercito sterminato di morti che ci stava seguendo.

In quel momento venimmo presi da un’irrefrenabile bramosia che ci spingeva a tuffare la faccia in quel sangue per berlo, eravamo nudi, il nostro pene si era indurito e l’eccitazione ci stava travolgendo, riuscimmo a trattenerci e ci concentrammo sulla figura, una metafora, eravamo in un sogno parte del sogno e quello che vedevamo era sognato da un sognatore  che prima di addormentarsi doveva avere previsto ogni cosa, un sogno da interpretare. Il labirinto che percorrevamo era dialettico, la strada sembrava condurci all’interno della figa ma non eravamo certi del modo di procedere, l’interno era avvolto nell’oscurità, un buco nero, quella era la figa della storia, forse l’origine da cui era stato partorito il sogno e prima di fare qualsiasi cosa dovevamo calcolare ogni probabilità in base ai dati statistici dell’esperienza.

Il rabbino ed Esopo erano immobili in attesa della parola che li animasse, intorno all’ombelico del servo da dove avevamo staccato la più grossa le zecche si erano diradate e tutte le altre ondeggiano sul suo corpo come in attesa, i sensi di colpa si erano attutiti e sentivamo i loro gemiti farsi sempre più fievoli, fuori dal bene e dal male ogni cosa diventava insignificante, in quel momento non avevamo idee e ci affidammo alla spontaneità seguendo l’istinto.

Ci chinammo sulla cascata di sangue e con le mani aperte a palmo ne attingemmo, il profumo era inebriante, lo assaggiammo con la punta della lingua, caldo, pastoso, ne bevemmo gualche goccia, la bocca si riempì del sapore squisito, svuotammo le mani e ne prendemmo ancora poi ci alzammo e ci sentivamo come ubriachi, avevamo già provato quella sensazione anni prima a Londra dentro una fumeria d’oppio tenuta da un cinese con cui ci dilungammo in interessanti conversazioni sul tema.

Sangue oppiato, forse era un’indicazione che la storia voleva farci intendere, la probabilità si scontrava contro un muro di pregiudizi che comprendevano ogni cosa, anche le nozioni che arricchivano il nostro sapere che in quel momento sentivamo ostili, riluttanti a farci procedere. Eravamo ai confini dello spazio, un limite ed oltre il mistero assoluto.

L’esperienza con l’oppio ci permetteva di  ragionare senza farci coinvolgere dall’ubriacatura, anzi ci apriva la mente a nuove probabilità dove vedevamo cose che altrimenti non avremmo mai potuto comprendere. Il succo del papavero,  l’estasi, il sonno che negando il corpo permette alla mente di librarsi al di là di ogni limitazione. L’esperienza aveva toccato anche gli effetti nefasti che ci limitammo ad osservare, un paradiso  che per mantenersi tale aveva bisogno di dosi sempre più grandi, continue, creando uno sdoppiamento di personalità dove solo lui, l’oppio, era il vero padrone tra l’estasi del sogno e l’inferno del corpo.

Il cinese era abile, di poche parole, preparava le pipe con perizia e le dava a fumare con garbo, ogni mossa era misurata in un cerimoniale perfetto, nella fumeria sembrava di essere in una chiesa tra fumi di incenso, era un altro mondo, un mondo artificiale con regole precise.

I suoi clienti erano per lo più nobili o figli di ricchi mercanti in fuga dal perbenismo soffocante del puritanesimo inglese, il cinese li disprezzava,  “Sono tutti ladri, ” diceva,  “rubano in casa per venire qui a darsi arie, loro parlano di ennui, noia esistenziale, sono snob, cercano il lusso, sono raffinati intenditori…”

Il cinese era una maschera imperturbabile estranea ad ogni emozione e per questo ci piaceva, all’inizio era restio a parlare ma a modo suo era un filosofo e dopo qualche pipata iniziò ad aprirsi, tra una fumata e l’altra facemmo lunghe chiacchierate sul nirvana del buddismo e l’atarassia degli epicurei che ci coinvolgevano anche grazie all’oppio che ci innalzava sopra le nubi dell’ipocrisia.

Di quelle parole traemmo solo l’essenza, l’oppio, la morfina, il sonno di Morfeo,  l’origine che coinvolgeva oriente ed occidente legati ad una sostanza artificiale che ne permetteva l’esistenza.

Il cinese era un campione statistico interessante, vedevamo chiaramente che era schiavo dell’oppio e che a parlare per lui era la droga, cioè la sicurezza di averne sempre a disposizione, intuimmo l’analogia con i soldi e sapevamo che se l’oppio fosse mancato sarebbe diventato l’ombra di se stesso. L’indagine era psicologica e comprendeva sia l’oppio che chi lo assumeva. Vedevamo il movente sociale che agiva dall’esterno e che questo movente era una regola che si perpetuava dall’antichità parallelamente alle religioni, al sogno di un paradiso extracorporeo, quello che Socrate chiamava anima, un giardino artificiale che trascendeva la realtà .

 

Ci sedemmo sulla riva del torrente di sangue e ne bevemmo ancora, il succo inebriante  ci isolava dal resto del mondo, il nostro corpo si era annullato e potevamo navigare nel tempo a piacimento.

Nella fumeria a Londra c’erano diverse stanze arredate in stile orientale con lampade mobili che proiettavano luci soffuse  animate da figure magiche. Sulle pareti erano disposte cuccette simili a loculi dove i clienti si adagiavano tra una pipata e l’altra. Il cinese parlava un inglese stentato inframmezzato da parole nella sua lingua cantilenante ed agitava le mani come a dipingere nell’aria gli ideogrammi che ne esprimevano il significato, rimase colpito da un disegno che avevamo fatto, un drago intorno al quale erano scritte parole che si scomponevano in lettere come  lacrime di sangue che gli colavano dagli occhi. Rimase a guardarlo stupito studiandone i particolari poi mi invitò in un salottino privato dove mi fece vedere un disegno analogo su un’antichissima stampa dell’epoca Sung, quindi prese dei bastoncini e li dispose sul tavolo dipingendo su un foglio  un ideogramma del suo alfabeto che scompose in figure più piccole scrivendo una frase che tradusse:

                                        Il sangue dell’ospite ha aperto la prima porta.

Conoscevamo l’I ching e le analogie con il nostro giochetto e quello che fece ci trovò preparati, il cinese voleva sapere come eravamo arrivati a comporre l’ideogramma del drago senza usare i bastoncini e noi rispondemmo che l’Arte l’avevamo rubata ad un prete ascoltandolo suonare all’organo la toccata e fuga in re minore di Bach, avevamo visto le melodie contrappuntate comporre figure nell’aria e da allora, guardando la musica la disegnavamo trasformandola in immagini e parole.

La cosa lo stupì, era incredulo, nella sua espressione leggevamo la sorpresa, non riusciva a capacitarsi che un barbaro occidentale conoscesse l’antico linguaggio meglio dei cinesi che lo praticavano da millenni e da quel momento iniziò a fidarsi e divenne un amico uscendo dalla scatola dove si era rinchiuso.

Nel suo salottino parlavamo di tutto, era un uomo colto, disse che era stato costretto a lasciare la Cina dalla guerra e che la compagnia delle Indie, i padroni della fumeria, lo avevano portato in Inghilterra per gestirla. Non era affatto contento della sua situazione, considerava gli inglesi ubriaconi, rozzi ed ignoranti, ci fece capire che tutti i nobili compresi i regnanti erano intossicati dall’oppio, che la moda era stata portata dai nobili francesi scampati alla ghigliottina e che erano sempre i nobili a procurare i clienti che serviva, che molti per questo ricevevano soldi sottobanco dalla compagnia e che lo stesso avveniva  in Cina.

“Un’élite di drogati, un lusso, la cosa è comprensibile, la cultura occidentale ha molte cose in comune con quella orientale.” gli dicemmo.

Lui non voleva crederci ma la cosa lo interessava, iniziammo a parlargli di Epicuro e del suo giardino, i farmaci dottrinali che adoperava per la ricerca del sommo bene inteso come assenza di male, evitammo i riferimenti al nominalismo e gli facemmo vedere figurando il discorso come tutta la teologia cristiana dicesse in pratica lo stesso, il sommo bene in antitesi al male e che questo, per assurdo potesse sembrare, era l’oppio, la morfina che da millenni era usata per raggiungere il fine, l’anaisthesia dal male di Epicuro. Nel discorso non mancavamo di contrappuntare le figure del Budda e dello Zen, la strada che portava alla perfezione sempre intesa come assenza di male quindi gli facemmo vedere come questo male in realtà era solo mascherato dall’oppio e che se questo fosse mancato sarebbe apparso in tutta la sua realtà, il dolore inteso come assenza di bene.

I nostri discorsi continuarono sulle nuvole dove l’oppio ci innalzava, noi usavamo e l’ebbrezza rimaneva sempre sotto controllo, gli facemmo vedere come all’élite di morfinomani fosse contrapposto il popolo che si specchiava nei suoi padroni di casta in casta lungo l’ottava di note musicali sempre alla ricerca del sommo bene portato dai farmaci o dall’alcol fino al popolino più umile e più numeroso a cui venivamo somministrati farmaci di tutt’altra specie. Iniziammo ad elencare i supplizi e le torture applicate dalle due culture in contrappunto, la figura del crocefisso degli schiavi romani, l’impalamento di quelli turchi ecc, figure sempre opposte come sommo male che invertivano in sommo bene gli schiavi che non ne erano vittime.  

Una mentalità artificiale che si tramandava da millenni sublimata dalle religioni e dominata dall’oppio.

In quel periodo non avevamo ancora idea dell’importanza della questione e ci limitammo a soddisfare le nostre curiosità di archeologi del linguaggio, l’oppio ci venne presto a noia, ci prendemmo un’ultima solenne ubriacatura arrivando a toccare la morte quindi risorgemmo e voltammo pagina per altre ricerche.

Eravamo tornati al torrente di sangue  che sgorgava dalla figa della storia,  evitammo di berne ancora e ci rialzammo, il disegno appariva in tutta la sua gravità, eravamo senza parole.

 

La storia era quella, eravamo arrivati all’origine, la figa che l’aveva partorita, le ultime scoperte ci avevano svuotati ed il vuoto aveva la forma di un immisurabile nulla che conteneva tutte le nostre convinzioni.

La storia…una musa, Ixo, una menzogna, una copertura, una maschera, un’iperbole all’infinito, una macchina…l’intuito lavorava in sordina, noi eravamo personaggi della storia e l’autore scriveva, suo era il sangue oppiato che usciva dalla figa, lui…fuori dalla storia mentre noi scavavamo nei suoi visceri ed eravamo tre, l’immagine era utile per il confronto, il nome, la forma del nome e la forma a cui il nome appartiene, l’universale dei nomi, il linguaggio.

L’idea che la creatività fosse femmina ci divertiva, una donna vanitosa in quel caso che si specchiava in se stessa ripetendosi all’infinito in una triade logica crocifissa sul golgota della superstizione, questo non divertiva l’autore, lui stava al presente mentre noi eravamo imbottigliati in un tunnel dove passato e futuro erano condizionati dai capricci di una musa a sua volta condizionata dal giudizio a priori.

Accarezzammo le labbra della figa da storici intenditori, lei si increspò imbrillantinandosi di rugiada, la musa della storia è Clio, probabilmente Cleopatra, cleo patra, cleo padre, una figura ermafrodita, la forma del linguaggio ma non eravamo certi di nulla, la storia che conoscevamo era specchiata nelle nostre conoscenze e sapevamo che erano tutte menzogne. Noi eravamo causa della storia e la nostra causa aveva la forma di un effetto la cui causa ci era stata impressa dall’universale.

Una credenza. Cleopatra era egizia e alla sua figura venne posta quella di Berenice, be-ce, becca, Rebecca? Un’eroina ebrea, l’eroina a quei tempi non era ancora stata inventata ma l’oppio imperversava all’iperbole, parole che esprimono doppi significati, uno formale di bene ed un uno nominale di male, un giudizio appiccicato specchietto di richiamo a riflessi condizionati.

L’eroina, lei, la storia…l’intuizione ci proiettava in un linguaggio nuovo dove ogni significato si annullava, un universale di codici da rinominare, un pianeta vergine.

La parola il cazzone per deflorare il linguaggio? L’idea ci piaceva, baciammo con amoroso trasporto quelle labbra leccandone la rugiada inebriante, in quel momento ci sentivamo il cazzone, il rabbino ed Esopo ci facevano da balle ed eravamo pronti a sfondare ma l’autore preferiva aspettare con pazienza, un orgasmo trattenuto per una verifica preventiva degli spermatozoi.

Figure che danzano al caso, la storia ruota intorno ai nomi di Arminio e Varo, poi c’è Nerone ed i primi cristiani, il circo massimo, Pietro ed il Vaticano, movimenti di opinione che gravitano intorno a credenze, un’immensa costruzione di parole montata mattone su mattone su fatti mai accaduti  e cementata con giudizi a priori.

 

Demmo un calcio nel culo al rabbino dicendo: “Tu non esisti, sei solo una tonaca, spogliati, voglio vedere come sei fatto senza.”

Il rabbino mi colpì alla fronte con il bastone, un colpo violento senza consistenza e rispose: “Hai la testa dura, sei cocciuto, ti rifiuti di guardare la realtà.”

“Quale realtà? Siamo in un sogno, una pazzia che nega la ragione relegandola in un buco chiuso dove il sogno è imprigionato in probabilità assurde, un manicomio!”

“Esatto, è proprio un manicomio, hai detto giusto, non ci sono alternative.”

“Al tuo posto avrei risposto nello stesso modo, noi siamo solo nomi, la nostra forma è riflessa dal sognatore, siamo parole e nient’altro, senza giudizio…”

Eravamo boccheggianti, senza giudizio ogni cosa perdeva la sua forma e non sapevamo più come orientarci, vedevamo solo fantasmi alimentati dalla credenza di pazzi. Il rabbino era la tonaca, Esopo le zecche e noi una presunzione letteraria, un’abitudine al vizio, al peccato, alla trasgressione, un’antitesi alla credenza che negandola ne prendeva la forma.

Atomi da disgregare e ricomporre, la psicologia si innestava automaticamente e quel che appariva assomigliava sempre più ad una macchina che poteva essere programmata a priori. Intuivamo la presenza di nomi esistenti solo nel linguaggio, un cast di attori che vita dopo vita risorgevano prendendo forma nella realtà intorno ad una verità che per dare loro corpo doveva invertirsi in menzogna.

Il rabbino bisbigliò con tono suadente: “La necessità dialettica!”

“Questo lo abbiamo capito, tu sei l’antitesi naturale della ragione umana, pura pazzia eppure ragioni e in questo caso il pazzo siamo noi che ti diamo la parola.”

“Tu sei sognato, forse il sognatore.”

“Oppure un sognato che sogna, la forma del sogno è il sognatore che essendo il sognato sognatore si inverte in sognato.”

“Perdonatemi…” disse Esopo mettendosi in mezzo “adesso parla difficile, io non so ma… perdonatemi,  qui che facciamo? La strada è bloccata, che facciamo?”

La domanda era pertinente,  eravamo giunti ad un punto limite, un punto morto in antitesi all’origine, alla nascita della storia, l’intuito ci diceva che doveva essere una data, un giorno del passato che la teneva inchiodata e quel giorno appariva come oggi.   Avevamo intuito un sistema dialettico spietato effetto della necessità storica di sopravvivenza e non avevamo idea di nulla,  il sistema gravitava sull’esempio di un morto che si trascinava nelle credenze e nelle superstizioni dei popoli. Questo esempio poteva essere ovunque, vedevamo l’inutilità di continuare a rivangare la storia e cercarlo era cercare il classico ago nel pagliaio, decidemmo di lasciar decidere alla creatività, ci sedemmo sulla sponda del torrente di sangue e guardammo nascere una nuova storia.

 

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