OPPIO
La figa di Ixo aveva interrotto
la strada, era spalancata a caverna e le labbra violacee pulsavano di vita, il
sangue continuava ad uscire zampillando e si era incanalato nel solco lasciato
dai nostri passi diretto all’esercito sterminato di morti che ci stava
seguendo.
In quel momento venimmo presi da un’irrefrenabile
bramosia che ci spingeva a tuffare la faccia in quel sangue per berlo, eravamo
nudi, il nostro pene si era indurito e l’eccitazione ci stava travolgendo, riuscimmo
a trattenerci e ci concentrammo sulla figura, una metafora, eravamo in un sogno
parte del sogno e quello che vedevamo era sognato da un sognatore che prima di addormentarsi doveva avere
previsto ogni cosa, un sogno da interpretare. Il labirinto che percorrevamo era
dialettico, la strada sembrava condurci all’interno della figa ma non eravamo
certi del modo di procedere, l’interno era avvolto nell’oscurità, un buco nero,
quella era la figa della storia, forse l’origine da cui era stato partorito il
sogno e prima di fare qualsiasi cosa dovevamo calcolare ogni probabilità in
base ai dati statistici dell’esperienza.
Il rabbino ed Esopo erano
immobili in attesa della parola che li animasse, intorno all’ombelico del servo
da dove avevamo staccato la più grossa le zecche si erano diradate e tutte le
altre ondeggiano sul suo corpo come in attesa, i sensi di colpa si erano
attutiti e sentivamo i loro gemiti farsi sempre più fievoli, fuori dal bene e
dal male ogni cosa diventava insignificante, in quel momento non avevamo idee e
ci affidammo alla spontaneità seguendo l’istinto.
Ci chinammo sulla cascata di
sangue e con le mani aperte a palmo ne attingemmo, il profumo era inebriante, lo
assaggiammo con la punta della lingua, caldo, pastoso, ne bevemmo gualche
goccia, la bocca si riempì del sapore squisito, svuotammo le mani e ne
prendemmo ancora poi ci alzammo e ci sentivamo come ubriachi, avevamo già
provato quella sensazione anni prima a Londra dentro una fumeria d’oppio tenuta
da un cinese con cui ci dilungammo in interessanti conversazioni sul tema.
Sangue oppiato, forse era
un’indicazione che la storia voleva farci intendere, la probabilità si
scontrava contro un muro di pregiudizi che comprendevano ogni cosa, anche le
nozioni che arricchivano il nostro sapere che in quel momento sentivamo ostili,
riluttanti a farci procedere. Eravamo ai confini dello spazio, un limite ed
oltre il mistero assoluto.
L’esperienza con l’oppio ci
permetteva di ragionare senza farci
coinvolgere dall’ubriacatura, anzi ci apriva la mente a nuove probabilità dove
vedevamo cose che altrimenti non avremmo mai potuto comprendere. Il succo del
papavero, l’estasi, il sonno che negando
il corpo permette alla mente di librarsi al di là di ogni limitazione.
L’esperienza aveva toccato anche gli effetti nefasti che ci limitammo ad
osservare, un paradiso che per
mantenersi tale aveva bisogno di dosi sempre più grandi, continue, creando uno
sdoppiamento di personalità dove solo lui, l’oppio, era il vero padrone tra
l’estasi del sogno e l’inferno del corpo.
Il cinese era abile, di poche
parole, preparava le pipe con perizia e le dava a fumare con garbo, ogni mossa
era misurata in un cerimoniale perfetto, nella fumeria sembrava di essere in
una chiesa tra fumi di incenso, era un altro mondo, un mondo artificiale con
regole precise.
I suoi clienti erano per lo più
nobili o figli di ricchi mercanti in fuga dal perbenismo soffocante del
puritanesimo inglese, il cinese li disprezzava, “Sono tutti ladri, ” diceva, “rubano in casa per venire qui a darsi arie, loro
parlano di ennui, noia esistenziale, sono
snob, cercano il lusso, sono raffinati intenditori…”
Il cinese era una maschera
imperturbabile estranea ad ogni emozione e per questo ci piaceva, all’inizio era
restio a parlare ma a modo suo era un filosofo e dopo qualche pipata iniziò ad
aprirsi, tra una fumata e l’altra facemmo lunghe chiacchierate sul nirvana del
buddismo e l’atarassia degli epicurei che ci coinvolgevano anche grazie
all’oppio che ci innalzava sopra le nubi dell’ipocrisia.
Di quelle parole traemmo solo
l’essenza, l’oppio, la morfina, il sonno di Morfeo, l’origine che coinvolgeva oriente ed occidente
legati ad una sostanza artificiale che ne permetteva l’esistenza.
Il cinese era un campione statistico
interessante, vedevamo chiaramente che era schiavo dell’oppio e che a parlare
per lui era la droga, cioè la sicurezza di averne sempre a disposizione, intuimmo
l’analogia con i soldi e sapevamo che se l’oppio fosse mancato sarebbe
diventato l’ombra di se stesso. L’indagine era psicologica e comprendeva sia
l’oppio che chi lo assumeva. Vedevamo il movente sociale che agiva dall’esterno
e che questo movente era una regola che si perpetuava dall’antichità
parallelamente alle religioni, al sogno di un paradiso extracorporeo, quello
che Socrate chiamava anima, un giardino artificiale che trascendeva la realtà .
Ci sedemmo sulla riva del
torrente di sangue e ne bevemmo ancora, il succo inebriante ci isolava dal resto del mondo, il nostro
corpo si era annullato e potevamo navigare nel tempo a piacimento.
Nella fumeria a Londra c’erano
diverse stanze arredate in stile orientale con lampade mobili che proiettavano
luci soffuse animate da figure magiche.
Sulle pareti erano disposte cuccette simili a loculi dove i clienti si
adagiavano tra una pipata e l’altra. Il cinese parlava un inglese stentato
inframmezzato da parole nella sua lingua cantilenante ed agitava le mani come a
dipingere nell’aria gli ideogrammi che ne esprimevano il significato, rimase
colpito da un disegno che avevamo fatto, un drago intorno al quale erano
scritte parole che si scomponevano in lettere come lacrime di sangue che gli colavano dagli
occhi. Rimase a guardarlo stupito studiandone i particolari poi mi invitò in un
salottino privato dove mi fece vedere un disegno analogo su un’antichissima
stampa dell’epoca Sung, quindi prese dei bastoncini e li dispose sul tavolo
dipingendo su un foglio un ideogramma
del suo alfabeto che scompose in figure più piccole scrivendo una frase che tradusse:
Il
sangue dell’ospite ha aperto la prima porta.
Conoscevamo l’I ching e le
analogie con il nostro giochetto e quello che fece ci trovò preparati, il
cinese voleva sapere come eravamo arrivati a comporre l’ideogramma del drago
senza usare i bastoncini e noi rispondemmo che l’Arte l’avevamo rubata ad un
prete ascoltandolo suonare all’organo la toccata
e fuga in re minore di Bach, avevamo visto le melodie contrappuntate
comporre figure nell’aria e da allora, guardando la musica la disegnavamo
trasformandola in immagini e parole.
La cosa lo stupì, era incredulo, nella
sua espressione leggevamo la sorpresa, non riusciva a capacitarsi che un
barbaro occidentale conoscesse l’antico linguaggio meglio dei cinesi che lo
praticavano da millenni e da quel momento iniziò a fidarsi e divenne un amico
uscendo dalla scatola dove si era rinchiuso.
Nel suo salottino parlavamo di
tutto, era un uomo colto, disse che era stato costretto a lasciare la Cina
dalla guerra e che la compagnia delle Indie, i padroni della fumeria, lo
avevano portato in Inghilterra per gestirla. Non era affatto contento della sua
situazione, considerava gli inglesi ubriaconi, rozzi ed ignoranti, ci fece
capire che tutti i nobili compresi i regnanti erano intossicati dall’oppio, che
la moda era stata portata dai nobili francesi scampati alla ghigliottina e che
erano sempre i nobili a procurare i clienti che serviva, che molti per questo
ricevevano soldi sottobanco dalla compagnia e che lo stesso avveniva in Cina.
“Un’élite di drogati, un lusso, la
cosa è comprensibile, la cultura occidentale ha molte cose in comune con quella
orientale.” gli dicemmo.
Lui non voleva crederci ma la
cosa lo interessava, iniziammo a parlargli di Epicuro e del suo giardino, i farmaci
dottrinali che adoperava per la ricerca del sommo bene inteso come assenza di
male, evitammo i riferimenti al nominalismo e gli facemmo vedere figurando il
discorso come tutta la teologia cristiana dicesse in pratica lo stesso, il
sommo bene in antitesi al male e che questo, per assurdo potesse sembrare, era
l’oppio, la morfina che da millenni era usata per raggiungere il fine, l’anaisthesia
dal male di Epicuro. Nel discorso non mancavamo di contrappuntare le figure del
Budda e dello Zen, la strada che portava alla perfezione sempre intesa come
assenza di male quindi gli facemmo vedere come questo male in realtà era solo
mascherato dall’oppio e che se questo fosse mancato sarebbe apparso in tutta la
sua realtà, il dolore inteso come assenza di bene.
I nostri discorsi continuarono
sulle nuvole dove l’oppio ci innalzava, noi usavamo e l’ebbrezza rimaneva
sempre sotto controllo, gli facemmo vedere come all’élite di morfinomani fosse
contrapposto il popolo che si specchiava nei suoi padroni di casta in casta
lungo l’ottava di note musicali sempre alla ricerca del sommo bene portato dai
farmaci o dall’alcol fino al popolino più umile e più numeroso a cui venivamo
somministrati farmaci di tutt’altra specie. Iniziammo ad elencare i supplizi e
le torture applicate dalle due culture in contrappunto, la figura del
crocefisso degli schiavi romani, l’impalamento di quelli turchi ecc, figure
sempre opposte come sommo male che invertivano in sommo bene gli schiavi che
non ne erano vittime.
Una mentalità artificiale che si
tramandava da millenni sublimata dalle religioni e dominata dall’oppio.
In quel periodo non avevamo
ancora idea dell’importanza della questione e ci limitammo a soddisfare le
nostre curiosità di archeologi del linguaggio, l’oppio ci venne presto a noia, ci
prendemmo un’ultima solenne ubriacatura arrivando a toccare la morte quindi
risorgemmo e voltammo pagina per altre ricerche.
Eravamo tornati al torrente di
sangue che sgorgava dalla figa della
storia, evitammo di berne ancora e ci
rialzammo, il disegno appariva in tutta la sua gravità, eravamo senza parole.
La storia era quella, eravamo
arrivati all’origine, la figa che l’aveva partorita, le ultime scoperte ci
avevano svuotati ed il vuoto aveva la forma di un immisurabile nulla che
conteneva tutte le nostre convinzioni.
La storia…una musa, Ixo, una
menzogna, una copertura, una maschera, un’iperbole all’infinito, una
macchina…l’intuito lavorava in sordina, noi eravamo personaggi della storia e
l’autore scriveva, suo era il sangue oppiato che usciva dalla figa, lui…fuori
dalla storia mentre noi scavavamo nei suoi visceri ed eravamo tre, l’immagine
era utile per il confronto, il nome, la forma del nome e la forma a cui il nome
appartiene, l’universale dei nomi, il linguaggio.
L’idea che la creatività fosse
femmina ci divertiva, una donna vanitosa in quel caso che si specchiava in se
stessa ripetendosi all’infinito in una triade logica crocifissa sul golgota
della superstizione, questo non divertiva l’autore, lui stava al presente
mentre noi eravamo imbottigliati in un tunnel dove passato e futuro erano
condizionati dai capricci di una musa a sua volta condizionata dal giudizio a
priori.
Accarezzammo le labbra della figa
da storici intenditori, lei si increspò imbrillantinandosi di rugiada, la musa
della storia è Clio, probabilmente Cleopatra, cleo patra, cleo padre, una
figura ermafrodita, la forma del linguaggio ma non eravamo certi di nulla, la
storia che conoscevamo era specchiata nelle nostre conoscenze e sapevamo che
erano tutte menzogne. Noi eravamo causa della storia e la nostra causa aveva la
forma di un effetto la cui causa ci era stata impressa dall’universale.
Una credenza. Cleopatra era
egizia e alla sua figura venne posta quella di Berenice, be-ce, becca, Rebecca?
Un’eroina ebrea, l’eroina a quei tempi non era ancora stata inventata ma
l’oppio imperversava all’iperbole, parole che esprimono doppi significati, uno
formale di bene ed un uno nominale di male, un giudizio appiccicato specchietto
di richiamo a riflessi condizionati.
L’eroina, lei, la
storia…l’intuizione ci proiettava in un linguaggio nuovo dove ogni significato
si annullava, un universale di codici da rinominare, un pianeta vergine.
La parola il cazzone per
deflorare il linguaggio? L’idea ci piaceva, baciammo con amoroso trasporto
quelle labbra leccandone la rugiada inebriante, in quel momento ci sentivamo il
cazzone, il rabbino ed Esopo ci facevano da balle ed eravamo pronti a sfondare
ma l’autore preferiva aspettare con pazienza, un orgasmo trattenuto per una
verifica preventiva degli spermatozoi.
Figure che danzano al caso, la
storia ruota intorno ai nomi di Arminio e Varo, poi c’è Nerone ed i primi
cristiani, il circo massimo, Pietro ed il Vaticano, movimenti di opinione che
gravitano intorno a credenze, un’immensa costruzione di parole montata mattone
su mattone su fatti mai accaduti e
cementata con giudizi a priori.
Demmo un calcio nel culo al
rabbino dicendo: “Tu non esisti, sei solo una tonaca, spogliati, voglio vedere
come sei fatto senza.”
Il rabbino mi colpì alla fronte
con il bastone, un colpo violento senza consistenza e rispose: “Hai la testa
dura, sei cocciuto, ti rifiuti di guardare la realtà.”
“Quale realtà? Siamo in un sogno,
una pazzia che nega la ragione relegandola in un buco chiuso dove il sogno è imprigionato
in probabilità assurde, un manicomio!”
“Esatto, è proprio un manicomio, hai
detto giusto, non ci sono alternative.”
“Al tuo posto avrei risposto
nello stesso modo, noi siamo solo nomi, la nostra forma è riflessa dal
sognatore, siamo parole e nient’altro, senza giudizio…”
Eravamo boccheggianti, senza
giudizio ogni cosa perdeva la sua forma e non sapevamo più come orientarci, vedevamo
solo fantasmi alimentati dalla credenza di pazzi. Il rabbino era la tonaca, Esopo
le zecche e noi una presunzione letteraria, un’abitudine al vizio, al peccato, alla
trasgressione, un’antitesi alla credenza che negandola ne prendeva la forma.
Atomi da disgregare e ricomporre,
la psicologia si innestava automaticamente e quel che appariva assomigliava
sempre più ad una macchina che poteva essere programmata a priori. Intuivamo la
presenza di nomi esistenti solo nel linguaggio, un cast di attori che vita dopo
vita risorgevano prendendo forma nella realtà intorno ad una verità che per
dare loro corpo doveva invertirsi in menzogna.
Il rabbino bisbigliò con tono
suadente: “La necessità dialettica!”
“Questo lo abbiamo capito, tu sei
l’antitesi naturale della ragione umana, pura pazzia eppure ragioni e in questo
caso il pazzo siamo noi che ti diamo la parola.”
“Tu sei sognato, forse il
sognatore.”
“Oppure un sognato che sogna, la
forma del sogno è il sognatore che essendo il sognato sognatore si inverte in
sognato.”
“Perdonatemi…” disse Esopo
mettendosi in mezzo “adesso parla difficile, io non so ma… perdonatemi, qui che facciamo? La strada è bloccata, che
facciamo?”
La domanda era pertinente, eravamo giunti ad un punto limite, un punto
morto in antitesi all’origine, alla nascita della storia, l’intuito ci diceva
che doveva essere una data, un giorno del passato che la teneva inchiodata e
quel giorno appariva come oggi. Avevamo
intuito un sistema dialettico spietato effetto della necessità storica di
sopravvivenza e non avevamo idea di nulla,
il sistema gravitava sull’esempio di un morto che si trascinava nelle credenze
e nelle superstizioni dei popoli. Questo esempio poteva essere ovunque,
vedevamo l’inutilità di continuare a rivangare la storia e cercarlo era cercare
il classico ago nel pagliaio, decidemmo di lasciar decidere alla creatività, ci
sedemmo sulla sponda del torrente di sangue e guardammo nascere una nuova
storia.
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