I vermi
L’intuizione procedeva avanti e
indietro nel tempo sul ponte che le parole di Esopo avevano gettato sul passato
della specie preumana.
In quel momento la ragione si
trovava di fronte ad un muro che sembrava invalicabile. La ragione è un
meccanismo elaboratore e funziona e può funzionare solo nei limiti di tale
meccanismo. Di fronte avevamo un mondo che trascendeva la ragione, non era ragione
era bestialità pura e le nostre gambe erano riluttanti a camminare oltre e
procedevano pesanti, i piedi sembravano non volersi staccare dal terreno.
Il rabbino, indovinando i nostri
pensieri, disse: “Noi vedemmo subito che Cristo era una rappresentazione di
Satana, il contradditore. Lui contraddiceva le nostre leggi e creava disordine,
il mio popolo si nutre di misticismo, ogni giorno tra gli ebrei spunta qualcuno
che si crede il messia, si mette a fare prodigi da saltimbanco e trova qualche
idiota disposto a seguirlo, se non adottassimo misure severe sarebbe il caos, come
è avvenuto di recente con i seguaci di Sabbatai Zevi.”
“Favole!” esclamammo, “questo lo
puoi raccontare al popolino boccalone non a noi che conosciamo la storia e
sappiamo leggere tra le sue righe, furono i romani a crocifiggerlo e quindi
venne sovrapposto alla via crucis di Spartaco ed agli schiavi, tutto questo non
può essere stato fatto a caso, chi azionava i fili dei burattini?”
Il rabbino ammiccò con l’occhio e
sorrise, continuando con voce grave: “Tu neghi la volontà di Dio, lui solo può
tutto e se così ha fatto avrà avuto i suoi motivi per provare il suo popolo e
farlo giungere alla santità della sua presenza.”
Le sue parole si frangevano
contro il muro della ragione senza riuscire a penetrarlo, c’era qualcosa di
probabile in quel che diceva ma rapportato a un nome che non corrispondeva alla
forma che burattinava la storia che noi intuivamo concreta, in carne ed ossa, presente
nella realtà e nascosta in essa con la maschera evanescente di Dio. Dicemmo:
“Cristo venne sovrapposto alla maggior parte delle credenze che animavano la
romanità, il supplizio di Prometeo, il sacrificio di Ercole…”
“Una grande superbia!” esclamò il
rabbino, “il figlio di un povero falegname e di una serva che si crede figlio
di dio e convince gli eletti del popolo ebreo a seguirlo staccandoli dalla sua
religione, Isaia dice che Dio cacciò il suberbo dalle sue schiere per
sprofondarlo nella ghenna, così noi facemmo con Cristo, era scritto e non si
può andare contro la sua volontà.”
“Isaia doveva essere un copista
molto abile, lo stesso mito è raccontato da Esiodo con la cacciata dei titani
dall‘Olimpo…”
A quel punto ci interrompemmo, l’intuizione
aveva fatto un balzo in avanti, le nostre parole ricalcavano argomentazioni
trite e se volevamo proseguire dovevamo rompere gli schemi che ci imponeva la
ragione eliminando quel che la limitava: il nostro giudizio. Lui era il vero
superbo che agiva in sottofondo burattinando i ragionamenti che fin qui avevamo
seguito. L’idea ci balenò nell’intelletto facendo seguire un tuono che
rimbombava le probabilità all’infinito, le richiamammo per contenerle in
confini più ampi, il cerchio si allargava.
Il rabbino sussurrò, con tono
provocante:
“Il giudizio del popolino
boccalone, l’orgoglio dei poveri che si ribellano all’ingiustizia…”
“L’orgoglio degli schiavi!”
continuammo, “hai detto giusto, è dai tempi di Omer che le nostre vite, secolo
dopo secolo, si incrociano, vuoi forse farci intendere che siamo un tuo
burattino, che tu ci hai forgiati per ragionare in questo modo?”
“Tu sei intelligente…” bisbigliò
il rabbino al nostro orecchio, “vedi le probabilità, se la cosa ti sconvolge
non è affar mio.”
La probabilità era reale ma
poteva essere rigirata sotto diversi punti di vista, il nostro si era spostato
ed ora guardava da un’angolazione diversa che comprendeva più spazio e per
effetto il tempo che lo limitava. Sembrava un cerchio delle streghe che
dall’origine si allargava al presente camminando sui nostri piedi. Il rabbino
ci stava usando, questo significava che eravamo necessari, ambedue eravamo
generati dal sogno dello stesso sognatore e con noi c’era Esopo che in quel
momento disse: “Perdonatemi…conosco la storia di uno che per non sciupare il
cavallo andava a piedi, se continuate coi vostri discorsi non la finiremo più, stavo
raccontando ed adesso ho perso il filo, dove eravamo rimasti?”
“Sull’orlo della fossa, ”
rispondemmo “l’uccello stava parlando al Minitauro.”
“È vero.” si voltò verso il
rabbino e chiese: “Cosa devo fare?”
“Continua.” rispose il prete con
tono paterno.
“Ebbene, perdonatemi…non ero mai
entrato nella caverna, per me era un mondo nuovo che scoprivo per la prima
volta. La immaginavo come una specie di paradiso dove avvenivano cose
meravigliose riservate solo ai migliori, mi sentivo fuori posto ed avevo paura
che da un momento all’altro qualcuno venisse per cacciarmi via o uccidermi.
L’uccello mi dava sicurezza, della nostra banda avevano risposto al richiamo
della tromba solo dodici, i più feroci ancora imbudellati, gli altri presi
dalla pazzia avevano preso fuoco e si erano carbonizzati. Molti dei superstiti
che vagavano nella caverna si erano avvicinati mantenendosi a distanza per
timore e formavano un cerchio intorno e oltre se ne stava formando un altro più
rado. Per lo più erano mummie con le fasce annerite di fumo, c’erano anche
uccelli spennati dal fuoco e nascosti tra questi i pochi rimasti della banda
mandata dall’arlecchino. Tutti guardavano il mio uccello, incantati dalla sua
voce.
I tigre avevano corde vocali
capaci di imitare tutti i suoni della giungla, avevano una voce…perdonatemi, con
le parole sono semplice, se sbaglio mi corregga, se volevano potevano
ipnotizzare ed il mio era il più abile a farlo.
Sotto, in fondo al pozzo, c’era
il minitauro. Era enorme, gli occhi stravolti dalla fame, non sembrava affatto
incantato, con le mani artigliate cercava di afferrare un grosso fegato che
l’uccello aveva fissato al suo becco
legato ad un tirante del pozzo e glielo faceva dondolare sulla testa
senza farglielo prendere cinguettando come un usignolo.
Dalla corta proboscide che
sporgeva dal petto del minitauro fuoriuscivano ciuffi di vermi insieme a colate
gastriche insanguinate, quei vermi, perdonatemi…non so se può capire, dondolavano
le teste al suono della sua voce, erano incantati… bisognerebbe convivere tanto
tempo con le zecche come me, a vederle così sembrano tutte uguali, col tempo si
impara a conoscerle e si scopre che invece sono una diversa dall’altra e anche
loro divise in bande come gli uccelli e tutte insieme formano come un unico
corpo che agisce con un intento comune. Ebbene, la stesso avveniva tra i vermi
che vivevano nella pancia del minitauro.
Avevano colori che variavano dal bianco al nero, certi filiformi, altri
ad anelli, ce n’erano di corti e di lunghi e tutti capivano una cosa sola:
mangiare.
Il minitauro sembrava impazzito, gli
occhi gli si erano iniettati di sangue, teneva le enormi fauci spalancate
sbavando sangue misto a vermi, questi lo rodevano dentro affamate e doveva
soffrire dolori lancinanti.
D’improvviso il mio uccello ruggì
da tigre, mollò il tirante lasciando cadere il becco nella gola del minitauro e
glielo conficcò nella carne con la punta artigliata. Il minitauro urlò di
dolore facendo tremare le volte della caverna, cercò di strappare la corda
senza riuscirci, era talmente grosso e grasso che non riusciva a spostarsi, stava
sempre sotto l’apertura del pozzo e oltre a produrre spaghetti faceva da
guardiano delle dispense, chiunque avesse cercato di entrare o uscire l’avrebbe
sbranato.
Nessuno sapeva quel che aveva in
mente l’uccello, lui agiva ed il risultato lo si vedeva sempre dopo, a cose
fatte.
Il minitauro si dibattè per pochi
minuti poi esausto si lascio cadere sulle sue trippe e rimase immobile, con le
fauci spalancate, ansando sconfitto.
Io guardavo dall’apertura del
pozzo, solo la parte sottostante il foro era illuminata, tutto il resto era
nell’oscurità ma si intravvedeva un fitto agitarsi di mummie che si accalcavano
intorno al minitauro senza osare avvicinarsi. Si sentivano squittii grugniti
latrati e i suoni aumentarono quando dalla gola del bestione iniziarono ad uscire
i vermi arrampicandosi sul becco e fuori dalla bocca spargendosi sul pavimento,
ce n’erano miliaia, fuoriuscivano in continuazione rimanendo compatti e
aumentavano di larghezza e spessore progressivamente spandendosi verso le
mummie terrorizzate.
I vermi uscirono tutti dal corpo
del minitauro che si era afflosciato a terra come un sacco vuoto, avevano
formato un cerchio e si allargarono fino a raggiungere le sfigate accalcate
contro le pareti della grotta. Il loro comportamento…” si volse verso il
rabbino e continuò: “Reverendo, glielo dica lei che sa parlare meglio, io non
saprei come spiegarlo, perdonatemi…”
Il rabbino annuì con la testa e
disse: “I vermi aborrivano la luce, era una specie particolare e potevano
vivere solo al buio contenuti all’interno di un corpo. Avevano abbandonato la
loro casa ed ora dovevano cercarne un’altra che li ospitasse.”
“Ecco! Proprio così, perdonatemi…
si allontanarono velocemente dalla luce che proveniva dall’apertura della
caverna ed assalirono le sfigate, queste si dibattevano come ossesse, l’abito
le proteggeva ma i vermi, i più sottili, iniziarono ad introdursi in tutte le
fessure delle bende e del loro corpo, trovavano varchi specialmente nella
maschera del volto, entravano e si insinuavano nelle narici, nelle orecchie, nella
bocca, negli occhi aprendo la strada agli altri che li seguivano. Da sopra si
vedeva appena, le pareti erano avvolte nell’oscurità, in breve lo spiazzo
sottostante rimase vuoto, si poteva solo indovinare quel che stava succedendo.
Perdonatemi…non so perché l’uccello lo fece.”
“Un comportamento esecrabile…non
trovi?” domandò il rabbino.
Noi seguivamo il ragionamento
sopra le righe e l’intuizione avanzava… rimanemmo colpiti dalla straordinaria
analogia con i vermi, in quel momento vedemmo la probabilità che la nostra
ragione fosse in qualche modo contenuta, limitata dalla mentalità rappresentata
dal rabbino e che questo le fosse necessario per esprimersi. Le probabilità che
seguivano erano agghiaccianti, ci rimproverammo interiormente per non saper valutare
i fatti con la dovuta estraneità, ci svuotammo di ogni presunzione e dicemmo:
“A noi sembra evidente, l’uccello aveva innescato l’incendio e lo stava
portando ovunque.”
Il rabbino continuò: “Vuoi dire
che li stava scalzando dal terreno?…probabile, la cabala scalza le lettere dal
loro significato apparente e le fa fluire verso nuove probabilità, tu sei dei
nostri…”
Rimanemmo impassibili alle sue
parole, quel che diceva appariva come vero ma
intuivamo che non lo era, poteva essere il contrario, un’antitesi che
comunque, avvalorandosi sulla tesi, poteva
risultare tale ma con un significato opposto che invertiva quel che era
veramente. La probabilità era spietata e dovevamo stare al gioco. Dicemmo:
“Quello era un villaggio secondario, la capitale stava al centro, l’uccello
doveva mirare lì, lui era il vero arlecchino, perché non si trovava al suo
posto?”
Il rabbino rispose: “Comunque era
il villaggio più importante da dove affluiva la maggior parte del cibo che
nutriva la capitale ed i tam tam avevano da tempo spostato l’attenzione della
giungla sui suoi successi, il centro è relativo all’interesse della specie, l’assoluto
non esiste.”
“Come?” ribattemmo, “un assoluto
che si sposta rimanendo tale, è l’interesse della specie che varia, l’assoluto
esiste.”
Il rabbino ridacchiò confermando
la nostra intuizione e disse con voce suadente: “Tu sei intelligente, ti dai un
sacco di arie per questo, fai domande di cui conosci già la risposta e ti
diverti a muovere i significati come più ti aggrada, tu sei un cabalista nato, ti
potresti convertire all’ebraismo e capire che credere non è credere, la chiave
per entrare nei nostri segreti, la magia delle parole, delle lettere, dei
numeri…”
In quel momento ci sentivamo
sull’orlo della fossa, la necessità era necessaria a se stessa, il rabbino era
generato da un sogno esattamente come noi e le parole di Esopo erano sognate da
un burattinaio che stava al di fuori del mondo dove ci muovevamo. Forse quel
mondo era l’obiettivo a cui tutti stavamo mirando, in quel caso che importanza
avevano le nostre ricerche? Il sognatore non era nessuno di noi, compresa la
giungla preumana e quel che credevamo non aveva alcuna importanza. Intuivamo
che il gioco andava oltre le nostre conoscenze empiriche e ci limitammo al
nostro piccolo, parte dell’universale che avevamo davanti. Forse il sognatore
non era del tutto addormentato, rimandammo ogni conclusione all’evidenza
lasciando Esopo continuare la storia.
“Le sfigate avevano smesso di
urlare, la grotta sottostante era rimasta deserta, il silenzio era
impressionante rotto a tratti da soffi simili a pernacchie emessi dal corpo del
minitauro che si sgonfiava. Di lui era rimasta solo la pelle squamosa, l’interno
era stato completamente divorato dai vermi.
L’uccello con un balzo si afferrò
al tirante e si calò nella grotta. Sulla sua pelle bruciacchiata stavano
iniziando a ricrescere le piume la cui fosforescenza lo illuminava tutto. Io
avevo paura, sapevo che i vermi non si erano fermati e dovevano essere da
qualche parte, mi guardai intorno, vidi gli occhi famelici dei superstiti della
banda brillare dai fori delle maschere, leoni, pantere, lupi, capì subito che
con loro non avrei avuto speranza, almeno ci fosse stato il cavallo, perdonatemi…non
avevo scelta, mi afferrai al tirante e scesi dietro l’uccello.
Atterrai sul corpo del minitauro,
la sua carogna emanava un fetore che impediva di respirare e mi allontanai di
qualche passo. L’uccello sganciò il becco dalla sua gola e lo impugnò lanciando
un ruggito di sfida che rimbombò ovunque.
Non l’avevo mai visto così, sbudellato,
perdonatemi…nudo, il suo corpo emanava fosforescenze arlecchine e dalla
maschera umana i suoi occhi splendevano della ferocia della giungla.
La grotta era ampia e circolare, contro
le pareti erano accalcate le sfigate che accudivano il minitauro, erano
immobili come statue fisse in posizioni grottesche, dalle aperture delle maschere facevano
capolino i vermi di cui dovevano essere piene. Sui quattro punti cardinali
della grotta c’erano delle aperture che comunicavano con altri locali dove
erano stivate le dispense del cibo ed i depositi di pelle conciata. Le porte
erano buie, al di là si udivano flebili rumori soffocati da un turbinoso
stropiccio che mi fece gelare le ossa.
L’uccello si diresse verso la più
grande ed io lo seguì. La grotta dove eravamo entrati era immensa completamente
avvolta nell’oscurità. A pochi passi, rischiarati dall’uccello, c’era un muro
di vermi accalcati uno sopra l’altro che spingevano verso le pareti in ogni
direzione. La luce dell’uccello li aveva spaventati e si allontanarono
velocemente. Lui ne afferrò una manciata per la coda, ne batté le teste sulla
parte tagliente del becco e li ingoiò in un solo boccone. In quel momento entrò
uno della nostra banda che ci aveva seguito, i vermi lo assalirono
immediatamente, quello ruggì cercando di liberarsi poi impazzì, si mise a
correre e si tolse il budello. Dopo pochi secondi iniziò ad ardere ed il suo
fuoco illuminò la grotta per qualche secondo. Perdonatemi…il nostro mondo era, adesso
sembra…”
Il rabbino intervenne per dire:
“Le usanze della specie preumana sono un campo di studio molto interessante, non
trovi?”
Noi seguivamo la storia sopra le
righe e davamo poco peso alle immagini apparenti vedendone altre più importanti,
in quel momento la nostra mente priva di presunzioni si era abbandonata ad un
non essere che cercava di fluire verso nuove certezze e non ce la sentivamo di
fare commenti, comunque rispondemmo attenendoci alla ragione: “Questa storia ha
dell’inverosimile, può essere probabile ma quel che stava succedendo è avvenuto
miliaia di anni fa, un sogno quindi da prendere come tale. La rappresentazione
del microcosmo della specie, l’in sé dell’in sè dell’universale, lo stomaco, gli
intestini e quanto altro, tutto questo deve esistere ancora nella nostra pancia
ed in questo caso non è sogno, sono le dispense dell’organismo umano che si
riflettono nell’universale dei popoli come istituzioni, la specie preumana è
ancora viva, presente, forse da qualche parte che ci sta spiando incuriosita.”
Il prete rise e continuò: “Il tuo
sembra puro humour inglese, disinteressato ed enigmatico, dice e non dice
lasciando sempre una scappatoia per ogni evenienza.”
“La tua è adulazione ma noi non
ci crediamo, quando facevi l’indovino dicesti ad Omer che solo se non ci
fossimo chiesti la ragione delle nostre azioni avremmo potuto farcela, noi lo
abbiamo capito, il bene è nel male che va inteso capovolto ma in questo caso
quel che è bene è male, di quale male si tratta?”
“Sei certo che sia l’indovino e
non il prete? Anche allora titubavi.”
“Che importanza ha? La nostra
ragione si serve della tua come contraddittorio per esistere, la ragione scopre
l’evidenza e non tira ad indovinare anche se qualche volta è costretta a farlo
ma in questo caso si tratta di probabilità azzardate quando non rimane altro da
tentare, noi facemmo un patto, firmai col sangue che usavo da inchiostro per
dipingere la prigione dove ero rinchiuso e quel patto può considerarsi vero
solo a metà perché tu ci costringesti a firmare ponendocelo come alternativa
alla morte.”
“La vita è una giungla feroce…”
continuò il rabbino senza dar peso alle nostre parole, “tu parli come uno che
ha passato la vita sui libri con l’unico problema di cosa cucinare per cena, che
cosa sai di quel che c’è dopo?”
Tacemmo, la domanda era
pertinente, probabile e sapevamo che tutto verteva sulla sua risposta.
Esopo disse, salvandoci
dall’imbarazzo: “Perdonatemi…io…sembrate cane e gatto, forse i vostri
vestiti…mi interrompete sempre, non è facile per me ricordare quei giorni, perdonatemi,
fu allora che…adesso…”
Gli staccammo una zecca che gli
pendeva da una narice rappresa in un grumo di muco e la schiacciammo tra i
denti come una caramella dicendo, con voluta ironia: “Perdonaci…le tue zecche
sono davvero squisite.”
Esopo continuò: “Se lo dice
lei…anch’io lo credo. Dov’ero rimasto?”
“L’uccello entrato aveva preso
fuoco.”
“Sì…perdonatemi, l’incendio
illuminò la grotta, era immensa, era…perdonatemi, non so come dire, s’immagini
uno che entra in un posto pieno di oro, gioielli preziosi, ricchezze
incalcolabili, a quei tempi il nostro oro era il sangue, la merce più preziosa.
Prima se me lo avessero detto non ci avrei creduto ma ora lo vedevo coi miei
occhi, era…in quel momento i vermi stavano distruggendo tutto ma c’erano zone
ancora libere, il fuoco li aveva momentaneamente paralizzati e si erano fermati
tutti, si vedevano, come dire?…erano prigionieri modificati, ce n’erano di
bianchi e di neri, erano disposti su dei filari tirati da strisce di cuoio, ogni
parte del loro corpo era ricoperta da grosse vesciche gonfie di sangue, sembravano
grappoli di uva che pendevano dai filari, una vigna…perdonatemi, erano disposti
talmente bene, in ordine, non credevo ai miei occhi, tanta abbondanza era…i
vermi li avevano assaliti, la maggior parte dei grappoli era invasa ed erano
solo più grovigli dove il sangue spruzzava da tutte le parti, i grappoli erano
impossibilitati a muoversi e solo qualcuno agitava la testa, anche questa
gonfia di sangue.
I vermi avevano trovato facile
esca, cibandosi si riproducevano ad una velocità spaventosa ed erano diventati
un’infinità, prima venivano serviti come spaghetti e contenuti nel loro numero
ma ora avevano rotto ogni freno e dilagavano ovunque. L’uccello sembrava non
curarsi di loro e si era diretto verso un’apertura. Io lo seguì, in quei
momenti ero terrorizzato, anche adesso…perdonatemi…l’uccello entrò in un
ripostiglio, dentro feci in tempo a vedere una piccola caverna con le pareti
lisce, su un rialzo del pavimento c’era una mummia ma non credo che fosse sfigata,
anche loro ne avevano una che faceva da capo, una femmina con i genitali
intatti che veniva scelta tra le cucciole appena nata e poi tenuta nelle
dispense fino alla morte. L’uccello le aveva strappato le bende e la stava
mordendo tra le gambe…perdonatemi, fu in quel momento che accadde, ero uscito
dalla sua luce, l’uccello arso si stava spegnendo ed i vermi avevano ripreso a
muoversi, qualcuno iniziava a strisciarmi sui piedi, le mie zecche erano
terrorizzate e mordevano da farmi impazzire, perdonatemi…persi la ragione e
fuggì approfittando della poca luce che ancora rimaneva nella grotta.
Tornai nella caverna del
minitauro, c’erano altri della banda che vista la fine fatta dal loro compagno
stavano fuggendo arrampicandosi su per il tirante.
Mi accodai a loro e tornai nella
grotta principale, rimasi a lungo nascosto nelle vicinanze del pozzo in attesa
di veder risalire il mio uccello ma inutilmente, provai a suonare la tromba ma
ancora inutilmente. Volevo morire, perdonatemi…adesso…
Furono le zecche a farmi muovere,
o forse la fame, tornai all’aperto. Tutta la giungla, eccetto la zona intorno
al nostro villaggio da dove il fuoco si era sviluppato, stava bruciando, le
fiamme toccavano il cielo ed il fumo ricopriva il sole oscurando il giorno.
Nulla sarebbe più stato come prima. Da allora vagai sulle ceneri in una vita
senza storia fin quando incontrai il rabbino che mi prese al suo servizio ed
ora lo vede anche lei dove sono. Mi sono sempre torturato per averlo
abbandonato, perdonatemi…l’uccello di fuoco non può essere morto e sono certo
che prima o poi lo ritroverò, io l’uccello ed il cavallo eravamo come una cosa
sola, tutta la giungla si specchiava in noi ed ora…”
Nessun commento:
Posta un commento