Capitolo 3. I vermi.







 

                                                           I vermi

 

L’intuizione procedeva avanti e indietro nel tempo sul ponte che le parole di Esopo avevano gettato sul passato della specie preumana.

In quel momento la ragione si trovava di fronte ad un muro che sembrava invalicabile. La ragione è un meccanismo elaboratore e funziona e può funzionare solo nei limiti di tale meccanismo. Di fronte avevamo un mondo che trascendeva la ragione, non era ragione era bestialità pura e le nostre gambe erano riluttanti a camminare oltre e procedevano pesanti, i piedi sembravano non volersi staccare dal terreno.

Il rabbino, indovinando i nostri pensieri, disse: “Noi vedemmo subito che Cristo era una rappresentazione di Satana, il contradditore. Lui contraddiceva le nostre leggi e creava disordine, il mio popolo si nutre di misticismo, ogni giorno tra gli ebrei spunta qualcuno che si crede il messia, si mette a fare prodigi da saltimbanco e trova qualche idiota disposto a seguirlo, se non adottassimo misure severe sarebbe il caos, come è avvenuto di recente con i seguaci di Sabbatai Zevi.”

“Favole!” esclamammo, “questo lo puoi raccontare al popolino boccalone non a noi che conosciamo la storia e sappiamo leggere tra le sue righe, furono i romani a crocifiggerlo e quindi venne sovrapposto alla via crucis di Spartaco ed agli schiavi, tutto questo non può essere stato fatto a caso, chi azionava i fili dei burattini?”

Il rabbino ammiccò con l’occhio e sorrise, continuando con voce grave: “Tu neghi la volontà di Dio, lui solo può tutto e se così ha fatto avrà avuto i suoi motivi per provare il suo popolo e farlo giungere alla santità della sua presenza.”

Le sue parole si frangevano contro il muro della ragione senza riuscire a penetrarlo, c’era qualcosa di probabile in quel che diceva ma rapportato a un nome che non corrispondeva alla forma che burattinava la storia che noi intuivamo concreta, in carne ed ossa, presente nella realtà e nascosta in essa con la maschera evanescente di Dio. Dicemmo: “Cristo venne sovrapposto alla maggior parte delle credenze che animavano la romanità, il supplizio di Prometeo, il sacrificio di Ercole…”

“Una grande superbia!” esclamò il rabbino, “il figlio di un povero falegname e di una serva che si crede figlio di dio e convince gli eletti del popolo ebreo a seguirlo staccandoli dalla sua religione, Isaia dice che Dio cacciò il suberbo dalle sue schiere per sprofondarlo nella ghenna, così noi facemmo con Cristo, era scritto e non si può andare contro la sua volontà.”

“Isaia doveva essere un copista molto abile, lo stesso mito è raccontato da Esiodo con la cacciata dei titani dall‘Olimpo…”

A quel punto ci interrompemmo, l’intuizione aveva fatto un balzo in avanti, le nostre parole ricalcavano argomentazioni trite e se volevamo proseguire dovevamo rompere gli schemi che ci imponeva la ragione eliminando quel che la limitava: il nostro giudizio. Lui era il vero superbo che agiva in sottofondo burattinando i ragionamenti che fin qui avevamo seguito. L’idea ci balenò nell’intelletto facendo seguire un tuono che rimbombava le probabilità all’infinito, le richiamammo per contenerle in confini più ampi, il cerchio si allargava.

Il rabbino sussurrò, con tono provocante:

“Il giudizio del popolino boccalone, l’orgoglio dei poveri che si ribellano all’ingiustizia…”

“L’orgoglio degli schiavi!” continuammo, “hai detto giusto, è dai tempi di Omer che le nostre vite, secolo dopo secolo, si incrociano, vuoi forse farci intendere che siamo un tuo burattino, che tu ci hai forgiati per ragionare in questo modo?”

“Tu sei intelligente…” bisbigliò il rabbino al nostro orecchio, “vedi le probabilità, se la cosa ti sconvolge non è affar mio.”

La probabilità era reale ma poteva essere rigirata sotto diversi punti di vista, il nostro si era spostato ed ora guardava da un’angolazione diversa che comprendeva più spazio e per effetto il tempo che lo limitava. Sembrava un cerchio delle streghe che dall’origine si allargava al presente camminando sui nostri piedi. Il rabbino ci stava usando, questo significava che eravamo necessari, ambedue eravamo generati dal sogno dello stesso sognatore e con noi c’era Esopo che in quel momento disse: “Perdonatemi…conosco la storia di uno che per non sciupare il cavallo andava a piedi, se continuate coi vostri discorsi non la finiremo più, stavo raccontando ed adesso ho perso il filo, dove eravamo rimasti?”

“Sull’orlo della fossa, ” rispondemmo “l’uccello stava parlando al Minitauro.”

“È vero.” si voltò verso il rabbino e chiese: “Cosa devo fare?”

“Continua.” rispose il prete con tono paterno.

 

“Ebbene, perdonatemi…non ero mai entrato nella caverna, per me era un mondo nuovo che scoprivo per la prima volta. La immaginavo come una specie di paradiso dove avvenivano cose meravigliose riservate solo ai migliori, mi sentivo fuori posto ed avevo paura che da un momento all’altro qualcuno venisse per cacciarmi via o uccidermi. L’uccello mi dava sicurezza, della nostra banda avevano risposto al richiamo della tromba solo dodici, i più feroci ancora imbudellati, gli altri presi dalla pazzia avevano preso fuoco e si erano carbonizzati. Molti dei superstiti che vagavano nella caverna si erano avvicinati mantenendosi a distanza per timore e formavano un cerchio intorno e oltre se ne stava formando un altro più rado. Per lo più erano mummie con le fasce annerite di fumo, c’erano anche uccelli spennati dal fuoco e nascosti tra questi i pochi rimasti della banda mandata dall’arlecchino. Tutti guardavano il mio uccello, incantati dalla sua voce.

I tigre avevano corde vocali capaci di imitare tutti i suoni della giungla, avevano una voce…perdonatemi, con le parole sono semplice, se sbaglio mi corregga, se volevano potevano ipnotizzare ed il mio era il più abile a farlo.

Sotto, in fondo al pozzo, c’era il minitauro. Era enorme, gli occhi stravolti dalla fame, non sembrava affatto incantato, con le mani artigliate cercava di afferrare un grosso fegato che l’uccello aveva fissato al suo becco  legato ad un tirante del pozzo e glielo faceva dondolare sulla testa senza farglielo prendere cinguettando come un usignolo.

Dalla corta proboscide che sporgeva dal petto del minitauro fuoriuscivano ciuffi di vermi insieme a colate gastriche insanguinate, quei vermi, perdonatemi…non so se può capire, dondolavano le teste al suono della sua voce, erano incantati… bisognerebbe convivere tanto tempo con le zecche come me, a vederle così sembrano tutte uguali, col tempo si impara a conoscerle e si scopre che invece sono una diversa dall’altra e anche loro divise in bande come gli uccelli e tutte insieme formano come un unico corpo che agisce con un intento comune. Ebbene, la stesso avveniva tra i vermi che vivevano nella pancia del minitauro.  Avevano colori che variavano dal bianco al nero, certi filiformi, altri ad anelli, ce n’erano di corti e di lunghi e tutti capivano una cosa sola: mangiare.

Il minitauro sembrava impazzito, gli occhi gli si erano iniettati di sangue, teneva le enormi fauci spalancate sbavando sangue misto a vermi, questi lo rodevano dentro affamate e doveva soffrire dolori lancinanti.

D’improvviso il mio uccello ruggì da tigre, mollò il tirante lasciando cadere il becco nella gola del minitauro e glielo conficcò nella carne con la punta artigliata. Il minitauro urlò di dolore facendo tremare le volte della caverna, cercò di strappare la corda senza riuscirci, era talmente grosso e grasso che non riusciva a spostarsi, stava sempre sotto l’apertura del pozzo e oltre a produrre spaghetti faceva da guardiano delle dispense, chiunque avesse cercato di entrare o uscire l’avrebbe sbranato.

Nessuno sapeva quel che aveva in mente l’uccello, lui agiva ed il risultato lo si vedeva sempre dopo, a cose fatte.

Il minitauro si dibattè per pochi minuti poi esausto si lascio cadere sulle sue trippe e rimase immobile, con le fauci spalancate, ansando sconfitto.

Io guardavo dall’apertura del pozzo, solo la parte sottostante il foro era illuminata, tutto il resto era nell’oscurità ma si intravvedeva un fitto agitarsi di mummie che si accalcavano intorno al minitauro senza osare avvicinarsi. Si sentivano squittii grugniti latrati e i suoni aumentarono quando dalla gola del bestione iniziarono ad uscire i vermi arrampicandosi sul becco e fuori dalla bocca spargendosi sul pavimento, ce n’erano miliaia, fuoriuscivano in continuazione rimanendo compatti e aumentavano di larghezza e spessore progressivamente spandendosi verso le mummie terrorizzate.

I vermi uscirono tutti dal corpo del minitauro che si era afflosciato a terra come un sacco vuoto, avevano formato un cerchio e si allargarono fino a raggiungere le sfigate accalcate contro le pareti della grotta. Il loro comportamento…” si volse verso il rabbino e continuò: “Reverendo, glielo dica lei che sa parlare meglio, io non saprei come spiegarlo, perdonatemi…”

Il rabbino annuì con la testa e disse: “I vermi aborrivano la luce, era una specie particolare e potevano vivere solo al buio contenuti all’interno di un corpo. Avevano abbandonato la loro casa ed ora dovevano cercarne un’altra che li ospitasse.”

“Ecco! Proprio così, perdonatemi… si allontanarono velocemente dalla luce che proveniva dall’apertura della caverna ed assalirono le sfigate, queste si dibattevano come ossesse, l’abito le proteggeva ma i vermi, i più sottili, iniziarono ad introdursi in tutte le fessure delle bende e del loro corpo, trovavano varchi specialmente nella maschera del volto, entravano e si insinuavano nelle narici, nelle orecchie, nella bocca, negli occhi aprendo la strada agli altri che li seguivano. Da sopra si vedeva appena, le pareti erano avvolte nell’oscurità, in breve lo spiazzo sottostante rimase vuoto, si poteva solo indovinare quel che stava succedendo. Perdonatemi…non so perché l’uccello lo fece.”

“Un comportamento esecrabile…non trovi?” domandò il rabbino.

Noi seguivamo il ragionamento sopra le righe e l’intuizione avanzava… rimanemmo colpiti dalla straordinaria analogia con i vermi, in quel momento vedemmo la probabilità che la nostra ragione fosse in qualche modo contenuta, limitata dalla mentalità rappresentata dal rabbino e che questo le fosse necessario per esprimersi. Le probabilità che seguivano erano agghiaccianti, ci rimproverammo interiormente per non saper valutare i fatti con la dovuta estraneità, ci svuotammo di ogni presunzione e dicemmo: “A noi sembra evidente, l’uccello aveva innescato l’incendio e lo stava portando ovunque.”

Il rabbino continuò: “Vuoi dire che li stava scalzando dal terreno?…probabile, la cabala scalza le lettere dal loro significato apparente e le fa fluire verso nuove probabilità, tu sei dei nostri…”

Rimanemmo impassibili alle sue parole, quel che diceva appariva come vero ma  intuivamo che non lo era, poteva essere il contrario, un’antitesi che comunque,  avvalorandosi sulla tesi, poteva risultare tale ma con un significato opposto che invertiva quel che era veramente. La probabilità era spietata e dovevamo stare al gioco. Dicemmo: “Quello era un villaggio secondario, la capitale stava al centro, l’uccello doveva mirare lì, lui era il vero arlecchino, perché non si trovava al suo posto?”

Il rabbino rispose: “Comunque era il villaggio più importante da dove affluiva la maggior parte del cibo che nutriva la capitale ed i tam tam avevano da tempo spostato l’attenzione della giungla sui suoi successi, il centro è relativo all’interesse della specie, l’assoluto non esiste.”

“Come?” ribattemmo, “un assoluto che si sposta rimanendo tale, è l’interesse della specie che varia, l’assoluto esiste.”

Il rabbino ridacchiò confermando la nostra intuizione e disse con voce suadente: “Tu sei intelligente, ti dai un sacco di arie per questo, fai domande di cui conosci già la risposta e ti diverti a muovere i significati come più ti aggrada, tu sei un cabalista nato, ti potresti convertire all’ebraismo e capire che credere non è credere, la chiave per entrare nei nostri segreti, la magia delle parole, delle lettere, dei numeri…”

In quel momento ci sentivamo sull’orlo della fossa, la necessità era necessaria a se stessa, il rabbino era generato da un sogno esattamente come noi e le parole di Esopo erano sognate da un burattinaio che stava al di fuori del mondo dove ci muovevamo. Forse quel mondo era l’obiettivo a cui tutti stavamo mirando, in quel caso che importanza avevano le nostre ricerche? Il sognatore non era nessuno di noi, compresa la giungla preumana e quel che credevamo non aveva alcuna importanza. Intuivamo che il gioco andava oltre le nostre conoscenze empiriche e ci limitammo al nostro piccolo, parte dell’universale che avevamo davanti. Forse il sognatore non era del tutto addormentato, rimandammo ogni conclusione all’evidenza lasciando Esopo continuare la storia. 

 

“Le sfigate avevano smesso di urlare, la grotta sottostante era rimasta deserta, il silenzio era impressionante rotto a tratti da soffi simili a pernacchie emessi dal corpo del minitauro che si sgonfiava. Di lui era rimasta solo la pelle squamosa, l’interno era stato completamente divorato dai vermi.

L’uccello con un balzo si afferrò al tirante e si calò nella grotta. Sulla sua pelle bruciacchiata stavano iniziando a ricrescere le piume la cui fosforescenza lo illuminava tutto. Io avevo paura, sapevo che i vermi non si erano fermati e dovevano essere da qualche parte, mi guardai intorno, vidi gli occhi famelici dei superstiti della banda brillare dai fori delle maschere, leoni, pantere, lupi, capì subito che con loro non avrei avuto speranza, almeno ci fosse stato il cavallo, perdonatemi…non avevo scelta, mi afferrai al tirante e scesi dietro l’uccello.

Atterrai sul corpo del minitauro, la sua carogna emanava un fetore che impediva di respirare e mi allontanai di qualche passo. L’uccello sganciò il becco dalla sua gola e lo impugnò lanciando un ruggito di sfida che rimbombò ovunque.

Non l’avevo mai visto così, sbudellato, perdonatemi…nudo, il suo corpo emanava fosforescenze arlecchine e dalla maschera umana i suoi occhi splendevano della ferocia della giungla.

La grotta era ampia e circolare, contro le pareti erano accalcate le sfigate che accudivano il minitauro, erano immobili come statue fisse in posizioni grottesche,  dalle aperture delle maschere facevano capolino i vermi di cui dovevano essere piene. Sui quattro punti cardinali della grotta c’erano delle aperture che comunicavano con altri locali dove erano stivate le dispense del cibo ed i depositi di pelle conciata. Le porte erano buie, al di là si udivano flebili rumori soffocati da un turbinoso stropiccio che mi fece gelare le ossa.

L’uccello si diresse verso la più grande ed io lo seguì. La grotta dove eravamo entrati era immensa completamente avvolta nell’oscurità. A pochi passi, rischiarati dall’uccello, c’era un muro di vermi accalcati uno sopra l’altro che spingevano verso le pareti in ogni direzione. La luce dell’uccello li aveva spaventati e si allontanarono velocemente. Lui ne afferrò una manciata per la coda, ne batté le teste sulla parte tagliente del becco e li ingoiò in un solo boccone. In quel momento entrò uno della nostra banda che ci aveva seguito, i vermi lo assalirono immediatamente, quello ruggì cercando di liberarsi poi impazzì, si mise a correre e si tolse il budello. Dopo pochi secondi iniziò ad ardere ed il suo fuoco illuminò la grotta per qualche secondo. Perdonatemi…il nostro mondo era, adesso sembra…”

Il rabbino intervenne per dire: “Le usanze della specie preumana sono un campo di studio molto interessante, non trovi?”

Noi seguivamo la storia sopra le righe e davamo poco peso alle immagini apparenti vedendone altre più importanti, in quel momento la nostra mente priva di presunzioni si era abbandonata ad un non essere che cercava di fluire verso nuove certezze e non ce la sentivamo di fare commenti, comunque rispondemmo attenendoci alla ragione: “Questa storia ha dell’inverosimile, può essere probabile ma quel che stava succedendo è avvenuto miliaia di anni fa, un sogno quindi da prendere come tale. La rappresentazione del microcosmo della specie, l’in sé dell’in sè dell’universale, lo stomaco, gli intestini e quanto altro, tutto questo deve esistere ancora nella nostra pancia ed in questo caso non è sogno, sono le dispense dell’organismo umano che si riflettono nell’universale dei popoli come istituzioni, la specie preumana è ancora viva, presente, forse da qualche parte che ci sta spiando incuriosita.”

Il prete rise e continuò: “Il tuo sembra puro humour inglese, disinteressato ed enigmatico, dice e non dice lasciando sempre una scappatoia per ogni evenienza.”

“La tua è adulazione ma noi non ci crediamo, quando facevi l’indovino dicesti ad Omer che solo se non ci fossimo chiesti la ragione delle nostre azioni avremmo potuto farcela, noi lo abbiamo capito, il bene è nel male che va inteso capovolto ma in questo caso quel che è bene è male, di quale male si tratta?”

“Sei certo che sia l’indovino e non il prete? Anche allora titubavi.”

“Che importanza ha? La nostra ragione si serve della tua come contraddittorio per esistere, la ragione scopre l’evidenza e non tira ad indovinare anche se qualche volta è costretta a farlo ma in questo caso si tratta di probabilità azzardate quando non rimane altro da tentare, noi facemmo un patto, firmai col sangue che usavo da inchiostro per dipingere la prigione dove ero rinchiuso e quel patto può considerarsi vero solo a metà perché tu ci costringesti a firmare ponendocelo come alternativa alla morte.”

“La vita è una giungla feroce…” continuò il rabbino senza dar peso alle nostre parole, “tu parli come uno che ha passato la vita sui libri con l’unico problema di cosa cucinare per cena, che cosa sai di quel che c’è dopo?”

Tacemmo, la domanda era pertinente, probabile e sapevamo che tutto verteva sulla sua risposta.

Esopo disse, salvandoci dall’imbarazzo: “Perdonatemi…io…sembrate cane e gatto, forse i vostri vestiti…mi interrompete sempre, non è facile per me ricordare quei giorni, perdonatemi, fu allora che…adesso…”

Gli staccammo una zecca che gli pendeva da una narice rappresa in un grumo di muco e la schiacciammo tra i denti come una caramella dicendo, con voluta ironia: “Perdonaci…le tue zecche sono davvero squisite.”

Esopo continuò: “Se lo dice lei…anch’io lo credo. Dov’ero rimasto?”

“L’uccello entrato aveva preso fuoco.”

“Sì…perdonatemi, l’incendio illuminò la grotta, era immensa, era…perdonatemi, non so come dire, s’immagini uno che entra in un posto pieno di oro, gioielli preziosi, ricchezze incalcolabili, a quei tempi il nostro oro era il sangue, la merce più preziosa. Prima se me lo avessero detto non ci avrei creduto ma ora lo vedevo coi miei occhi, era…in quel momento i vermi stavano distruggendo tutto ma c’erano zone ancora libere, il fuoco li aveva momentaneamente paralizzati e si erano fermati tutti, si vedevano, come dire?…erano prigionieri modificati, ce n’erano di bianchi e di neri, erano disposti su dei filari tirati da strisce di cuoio, ogni parte del loro corpo era ricoperta da grosse vesciche gonfie di sangue, sembravano grappoli di uva che pendevano dai filari, una vigna…perdonatemi, erano disposti talmente bene, in ordine, non credevo ai miei occhi, tanta abbondanza era…i vermi li avevano assaliti, la maggior parte dei grappoli era invasa ed erano solo più grovigli dove il sangue spruzzava da tutte le parti, i grappoli erano impossibilitati a muoversi e solo qualcuno agitava la testa, anche questa gonfia di sangue.

I vermi avevano trovato facile esca, cibandosi si riproducevano ad una velocità spaventosa ed erano diventati un’infinità, prima venivano serviti come spaghetti e contenuti nel loro numero ma ora avevano rotto ogni freno e dilagavano ovunque. L’uccello sembrava non curarsi di loro e si era diretto verso un’apertura. Io lo seguì, in quei momenti ero terrorizzato, anche adesso…perdonatemi…l’uccello entrò in un ripostiglio, dentro feci in tempo a vedere una piccola caverna con le pareti lisce, su un rialzo del pavimento c’era una mummia ma non credo che fosse sfigata, anche loro ne avevano una che faceva da capo, una femmina con i genitali intatti che veniva scelta tra le cucciole appena nata e poi tenuta nelle dispense fino alla morte. L’uccello le aveva strappato le bende e la stava mordendo tra le gambe…perdonatemi, fu in quel momento che accadde, ero uscito dalla sua luce, l’uccello arso si stava spegnendo ed i vermi avevano ripreso a muoversi, qualcuno iniziava a strisciarmi sui piedi, le mie zecche erano terrorizzate e mordevano da farmi impazzire, perdonatemi…persi la ragione e fuggì approfittando della poca luce che ancora rimaneva nella grotta.

Tornai nella caverna del minitauro, c’erano altri della banda che vista la fine fatta dal loro compagno stavano fuggendo arrampicandosi su per il tirante.

Mi accodai a loro e tornai nella grotta principale, rimasi a lungo nascosto nelle vicinanze del pozzo in attesa di veder risalire il mio uccello ma inutilmente, provai a suonare la tromba ma ancora inutilmente. Volevo morire, perdonatemi…adesso…

Furono le zecche a farmi muovere, o forse la fame, tornai all’aperto. Tutta la giungla, eccetto la zona intorno al nostro villaggio da dove il fuoco si era sviluppato, stava bruciando, le fiamme toccavano il cielo ed il fumo ricopriva il sole oscurando il giorno. Nulla sarebbe più stato come prima. Da allora vagai sulle ceneri in una vita senza storia fin quando incontrai il rabbino che mi prese al suo servizio ed ora lo vede anche lei dove sono. Mi sono sempre torturato per averlo abbandonato, perdonatemi…l’uccello di fuoco non può essere morto e sono certo che prima o poi lo ritroverò, io l’uccello ed il cavallo eravamo come una cosa sola, tutta la giungla si specchiava in noi ed ora…”

 

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